La Sapienza della Croce

La Sapienza della Croce  (XXXIII) n.2 Maggio-Agosto 2018

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(l’editoriale e le recensioni sono parti integranti della rivista e non sono vendute singolarmente)


EDITORIALE
GIANNI SGREVA, cp (pp. 3-8)

La sofferenza del messia
nella tradizione ebraica antica (pp. 9-50)
FRANCESCO GIOSUÈ VOLTAGGIO

La sofferenza del messia nella tradizione ebraica antica Francesco Giosuè Voltaggio Lo studio rivisita i testi più rappresentativi della letteratura ebraica antica (tratti dai manoscritti del mar Morto, dagli Apocrifi dell’AT e dalla letteratura targumica e talmudica) relativi alla figura di un messia sofferente o ucciso, con particolare interesse alla datazione delle tradizioni ivi contenute. Ci si sofferma sul misterioso personaggio del messia «figlio di Efraim» o «figlio di Giuseppe», mettendo in discussione la datazione tardiva proposta da alcuni studiosi circa la nascita della tradizione a lui relativa (dal secondo secolo d.C. in poi). Benché all’epoca del secondo tempio la figura del messia trionfante prevalga nelle varie correnti dell’ebraismo, è difficile escludere, in base alla nostra analisi, che non fossero sorte tradizioni circa le tribolazioni dei tempi messianici, le sofferenze del messia e una sua eventuale morte violenta, in vista della redenzione finale. Tali tradizioni, così come le interpretazioni di alcuni passi biblici, sarebbero state in seguito censurate, accantonate o messe al margine da parte dell’ebraismo ufficiale, sebbene ce ne siano giunte alcune «reliquie» di sommo interesse e fascino.

Gioia e sofferenza apostolica
in Filippesi e 2cor 1-7 (pp. 51-81)
MARIO COLLU, cp

L’autore dell’articolo si propone di esaminare l’intima relazione tra i due primordiali sentimenti umani della sofferenza/tristezza e della gioia/consolazione. Dopo una breve presentazione dei concetti nel mondo antico e in quello biblico in generale, approfondisce il loro significato nella letteratura paolina, soffermandosi, in particolare, sulla Lettera ai Filippesi e la prima sezione della 2Corinzi (2Cor 1-7), dove i due sentimenti sono intimamente relazionati con il suo ministero apostolico. Il rapporto di Paolo con gli Efesini è di affetto reciproco. La gioia è frutto della «coinônía» alle catene, al consolidamento e alla difesa del Vangelo (Fil 1,7), annunciato dall’Apostolo, mentre le sofferenze provengono principalmente dal mondo esterno. A Corinto, invece, è contestata la paternità apostolica di Paolo e questo provoca una reciproca e grande tristezza. La gioia scaturisce dall’accoglienza da parte dei Corinzi della severa apologia, che l’Apostolo fa del suo ministero, e dalla loro conversione.

Col 1,14-15 nell’esegesi patristica:
completare nella propria carne
la Passione di Cristo per
il suo corpo che è la Chiesa (pp. 83-108)
GIANNI SGREVA, cp

L’autore, patrologo, consulta i Padri della Chiesa per comprendere cosa significassero le parole di Paolo in Col 1,24: per completare nella mia carne le sofferenze di Cristo a vantaggio del suo corpo che è la Chiesa. Dopo aver consultato i Padri e gli scrittori cristiani dal II al IV secolo, sia in ambito greco come in ambito latino, abbiamo trovato la risposta in Ilario di Poitiers, in parte in Ambrogio, e in Agostino di Ippona. Ilario parla della “universa caro” assunta dal Verbo nell’incarnazione. Di conseguenza tutto quanto appartiene al Cristo individuale in effetti include l’umanità intera. Ilario non giunge ad applicare pienamente a Col 1,24 la sua intuizione legata al pensiero paolino del proto Adamo che porta tutta l’umanità nel peccato e il secondo Adamo che assume la natura umana universale e tutti gli uomini, portandoli alla salvezza, nel suo corpo che è la Chiesa. Tuttavia, il pensiero del vescovo di Poitiers è facilmente applicabile a Col 1,24. La passione di Cristo sarà completa quando tutti gli uomini, corpo di Cristo, avranno vissuta la Passione di Cristo nelle sofferenze dell’umanità intera fino alla conclusione della storia. Agostino invece partendo dalla sua ecclesiologia cristologica o cristologia ecclesiologica lega perfettamente nell’unico soggetto Cristo sia il capo sia le membra del corpo, rendendosi esplicito nell’applicazione di questa dottrina, anch’essa fondamentalmente paolina, a Col 1,24. La passione del Cristo capo è finita, ma non è completa. Sarà completata solo nella continuazione partecipativa di tutte le membra di quel corpo che con il capo forma l’unico “vir perfectus”, Cristo, nella passione di capo e corpo, di capo e membra del corpo, fino alla fine del mondo.

Il linguaggio della sofferenza negli Acta
e Passiones martyrum dei primi secoli (pp. 109-143)
JURI LEONI, ofm

Il presente contributo prende in esame il linguaggio della sofferenza nei più antichi Acta e Passiones martyrum, i testi che tramandano le narrazione circa i primi martiri cristiani. Esaminando il rapporto dei cristiani e pagani con il problema della sofferenza del martire, i verbi più ricorrenti (μαρτυρέω, ὑπομένω, θύω, κρεμάννυμι e πάσχω-patior), le prove fisiche e morali e alcuni fenomeni quali l’assenza del dolore (ἀναλγησία) e il caratteristico lessico della gioia del martire, l’autore sottolinea come il paradosso di una sconfitta umana che si conclude con la morte del martire, preluda già per i primi cristiani a una speranza vittoriosa, un sovvertimento del valore della sofferenza che, da sempre rifiutata da tutti, diventa evento salvifico.

Dio nel mistero della sofferenza (pp. 145-170)
JOSÉ MICHEL FAVÌ, mi

L’autore mette in evidenza l’importanza della salvaguardia della trascendenza di Dio in ogni discorso teologico. Sottolinea che la concezione della sofferenza del Dio immutabile non è riducibile solo ad un problema dell’intelligenza della fede, poiché appartiene all’ordine proprio del mistero insondabile del Dio tripersonale e del suo disegno di salvezza. Fa percepire come la sofferenza partecipata da Dio, senza subire mutamento, sia un locus theologicus che esprime il paradosso del suo agire rivelativo dell’alterità del suo Essere e della sua infinita misericordia. È un lasciarsi coinvolgere liberamente che non comporta limiti ontologici o mancanza di essere, bensì manifesta la forza della sua onnipotenza di amore. Lo sguardo alla rivelazione, dalla creazione alla Croce, passando per l’incarnazione, permette di tutelare la non omogeneità di Dio con il Creato e concepire l’analogia come via teologica indispensabile per parlare di Dio in modo rigoroso anche se inevitabilmente limitato.

Teologia della sofferenza in J. Moltmann.
Quale contributo per la postmodernità? (171-192)
CRISTIANO MASSIMO PARISI, cp

La tensione dialettica della presenza della sofferenza e del Dio onnipotente che è amore, oltre ad essere uno dei temi principali della tradizione biblica è anche una delle questioni costantemente affrontate dalla storia del pensiero credente e non solo. L’A. presenta la validità della proposta del teologo riformato J. Moltmann sul tema suddetto. Per il lavoro sono stati scelti quei testi dove l’amburghese racconta la sua esperienza di sofferenza, ne presenta alcuni volti e quelle fonti che aiutano a cogliere la sua prospettiva teologica sull’argomento. L’ultimo paragrafo tenta di mostrare il contributo che può essere offerto alla postmodernità da parte di uno dei più ‘liberi intelletti’ del XX secolo.