Il saluto della rivista a P. Tito Amodei

Alle 8.10 del mattino del 31 gennaio 2018, si è spento serenamente
P. Tito Amodei collaboratore della Rivista per tantissimi anni.

Grati del suo lavoro,
pubblichiamo, in anteprima, un lavoro di recensione/saggio di
p. Costantino Comparelli sull’ultima fatica di padre Tito.

La Passione di Cristo nell’arte italiana. La rassegna di Tito Amodei (Clicca qui per la Versione PDF)

Tito Amodei, passionista, ha dato alla stampa La Passione di Gesù nell’arte italiana   in due volumi (Ed. Palumbi, Teramo 2017). L’autore qualifica come Antologia questo suo lavoro, ma è una ricognizione ragionata su un campo di vastissima produzione. Tito (chiameremo sempre così l’autore, col suo nome d’arte) porta nella lettura anche la sua esperienza di artista completo: scultore, pittore, incisore, integrando le sue valutazioni con accenti che si spingono fino alla manualità intravista nelle opere. E’ anche uno studioso d’arte (50 artisti per la Passione, De Luca editore, Roma 1962); quanto basta per fidarsi di una competenza di giudizi e di percorsi che toccano settori di arte, di storia e di fede. Volta per volta egli mette a fuoco l’opera e l’artista di fronte alle esigenze del contenuto. Per Tito, oltre la genialità creativa, è il soggetto tematico che misura la fedeltà e l’originalità dell’artista. In questo caso è la storia della Passione che muove committenti e artisti. Un punto di partenza che giunge ad un esito comunicativo che ha un destino, un genere anch’esso legato alla fede come può essere un luogo sacro, la catechesi o un messaggio edificante ecc. Qui Tito ha avuto lo spunto privilegiato per onorare quell’impegno che lega i passionisti con voto a far conoscere la Passione di Cristo come mistero centrale della fede e della pratica cristiana. Dicevamo privilegiato perché normalmente è attraverso la parola che viene interpretato questo impegno. Nel 1930 dal Consiglio generale dei passionisti fu inviata una circolare che era del padre Leone Kierkels, in cui si esortava allo studio globale della Passione, non solo dal punto di vista biblico e teologico ma anche letterario e artistico. Le risposte furono poche ma di buon livello, tutte di indole storico-biblica, teologica e spirituale. Trascurato, per ovvii motivi, il settore umanistico. Questo lavoro di Tito accoglie quel lontano invito e firma da studioso e da passionista questi due volumi che dovrebbero far parte del corso di studi dei giovani passionisti. Le ragioni sono varie e serie. Innanzitutto la crescente attenzione all’arte come figurazione della cultura e della stessa società di ogni periodo storico: pensiamo alla comunione di sguardo di più generazioni su opere sacre che hanno accompagnato riti e preghiere: se non sarà una pala barocca sarà una pietra romanica o una moderna croce spoglia e vedova, a collocare in un possibile immaginario intimo le narrazioni sacre.

Tito conduce la rassegna in modo che il lettore tenga sempre vivo il confronto delle opere con il loro significato e ne annota le proprietà, i debiti stilistici e ispirativi, come anche i risultati finali, geniali o di maniera, senza mai pronunziare verdetti negativi. Ci troviamo infatti di fronte a prodotti alti dello spirito umano di ogni tempo. In questo senso Tito segue una propria linea interpretativa, non solo perché spesso concede incursioni di fede nel suo argomentare, ma anche perché la valutazione estetica si accompagna all’ambientazione storica. Questo criterio ha assunto da oltre un secolo un grande rilievo negli studi dell’arte. Qui entriamo in un discorso non sempre scontato per cui qui, come altrove, si fronteggiano tendenze positiviste con posizioni contenutistiche. Arnold Hauser sottolineava maggiormente i fattori, per così dire, esterni al prodotto artistico, ponendolo nettamente nella sua storicità: tutto ciò che ruota intorno all’artista spiega l’opera, non escluso il contesto politico ed economico, facendone lo specchio anche di una classe. Tale concezione si distanziava da quella di Hans Tietze e Max Dvorak che avevano dato un primato a letture interne all’opera d’arte in senso più estetico e spiritualista: la storicità non spezzerebbe un suo processo di sviluppo nella continuità. Per Tito il discorso storico ha una sua unità di riferimento tematico cui subordina gli aspetti storici come soccorso di lettura, non come genesi dell’opera. Infatti queste posizioni si fanno vivaci quando si tratterà dell’arte della Riforma cattolica e/o Controriforma.

Quanto ai campi di produzione Tito non trascura alcun genere che a taluni potrebbe sembrare minore o marginale. Un barlume geniale attira la sua attenzione e gli dedica spazio perché un significato di profonda umanità dinanzi alla Croce può spuntare come domanda appropriata di senso nell’artista insospettato.

E’ significativo per certi versi che Tito inizi la sua carrellata col graffito del Palatino che è una caricatura del Crocifisso. Siamo tra il II e il III secolo e i cristiani avevano pudore a rappresentare il Cristo con un supplizio infamante agli occhi dei pagani. Ma è importante per noi, se non altro, per dire ai Testimoni di Geova, in base alla cronologia, che la Croce non fu un palo come loro da sempre sostengono. Poi vengono le figurazioni di S. Sabina e S. Maria Antiqua, V e VIII secolo, che danno una versione eretta del Cristo con vesti sacerdotali e senza segni di dolore. Un’affermazione della divinità del Verbo, cara anche a quella cultura orientale che farà sentire a lungo il suo influsso in occidente. Sarà l’arte benedettina ad essere più descrittiva e narrativa. I cicli di S. Vincenzo al Volturno e di S. Angelo in Formis, dal secolo IX hanno diffuso la civiltà monastica di Montecassino con quella Biblia pauperum che istruiva il popolo con le immagini.  Presto si passa al linguaggio romanico, soprattutto nel nord Italia, con chiare venature longobarde come a S. Zeno di Verona. Altrove ancora predomina l’arte bizantina come nei mosaici di S. Clemente a Roma e poi a Monreale. Tito si ferma davanti al Volto Santo di Lucca che ricorda la posa liturgica del Cristo di S. Maria Antiqua. Dopo l’esame di altre opere romaniche passa a quell’aurora della pittura italiana che si afferma con Cimabue e con Duccio. Le loro Crocifissioni cominciano a palpitare di umanità anche sotto i debiti bizantini. Ma è con i Pisano nella scultura e soprattutto con Giotto nella pittura che Tito indica l’inizio della figurazione capace di essere mistica e attuale nel racconto sacro. Sulla scia di Giotto si è mossa una folla di seguaci che hanno compreso e diffuso le sue conquiste cominciando a creare un interscambio tra arte, committenza e ambiente culturale, un campo alla storia dell’arte nella ricerca di quei soccorsi compositivi derivanti da premesse culturali, anche di provenienza teologica, finora trascurati dalla lettura critica. Qui giova segnalare il saggio della studiosa E. Simi Varanelli secondo la quale Giotto avrebbe accontentato con i suoi Crocifissi, diversamente atteggiati, la teologia del tempo. Quella francescana vedeva nel Cristo sulla Croce l’umanità sofferente e quella domenicana un Cristo sereno, partecipe dell’impassibilità divina (Cristologia tomista e rinnovo dell’iconografia del Patiens nel tardo duecento. In AA. VV.; Arte e spiritualità negli ordini mendicanti. Biblioteca Egidiana, Argos Edizioni, Roma 1952, pp. 93-97).

Nell’orbita giottesca è Taddeo Gaddi che si muove con autorità nella sua Crocifissione solenne e monumentale su fondo scuro, gradevole anche per sensibilità premoderne. Simone Martini e i Lorenzetti rappresentano l’alternativa gotica alla corrente giottesca con magnifiche produzioni. E’ con Brunelleschi che Tito fa ingresso nel Quattrocento in cui si muove con grande ammirazione. Inizia con la rivalità nei confronti di Donatello a proposito del Crocifisso.  Ma è Donatello a replicare nelle sue Crocifissioni lo sguardo nuovo dell’arte con modellati di forte impronta plastica. Masaccio porta in pittura le conquiste di Donatello. Nella Crocifissione di Capodimonte e in quella di S. Maria Novella egli offre nelle figure e nello sfondo architettonico una sintesi del Rinascimento. Col Beato Angelico, salutato da Michelangelo e da altri come impareggiabile pittore sacro, le forme del Masaccio sono addolcite e sublimate. Poi la serie di capolavori continua con nomi noti, tra i quali spiccano Piero della Francesca, Signorelli, Perugino le cui figure solitarie e contemplative, come nella Crocifissione, hanno sempre suscitato un motivato consenso. Viva attenzione Tito dedica ad Antonello da Messina, come alla Pietà del Bellini, al Cristo morto del Mantegna, alla Pietà di Cosmè Tura e a quella del Botticelli, notando che la scena della Madre col Figlio deposto dalla Croce è un tema ricorrente in questo periodo in Italia e fuori.

Non è possibile fermarci su tanti capolavori, passiamo alla Crocifissione di Raffaello, opera giovanile sullo stile del Perugino, e poi alla bellissima Deposizione della Galleria Borghese su cui il giovane maestro ha indugiato con forme e colori per raggiungere la Pietà e l’intenzione votiva dei committenti. E’ per Michelangelo che Tito rivolge la sua profonda ammirazione a proposito delle quattro versioni della Pietà, a parte il Crocifisso giovanile, opera acerba e promettente. Tito insegue nelle Pietà, oltre il senso religioso quello drammatico della stessa biografia del maestro e ne indica un cammino interiore che non accompagna la committenza papale e sembra voler costituire un genere e un testamento della sua poetica di pietra, associata alla vicinanza sofferta del corpo di Cristo. La Pietà di S. Pietro ha la bellezza formale del primo Michelangelo, le altre hanno un più diretto linguaggio personale, quello del credente che non deve obbedire ad una committenza ma al bisogno intimo di nascondersi nel marmo per sentirsi, a suo modo, vicino a Cristo. E’ da quella posizione che il grande artista smentisce tutti i tentativi di sottrarlo alla Chiesa, anche quella   “corrotta” del Rinascimento. Chi ha voluto sottolineare i tratti semitici di Cristo, chi non finisce di vedere messaggi cifrati nella Sistina e nelle statue, chi lo associa a categorie compiacenti del dissenso settario, quasi un Michelangelo proibito (R. Dorner e B. Blech, 2008), tutto per espropriarlo del suo protagonismo storico e simbolico nella Chiesa del suo tempo. Lo si vorrebbe assegnare ad una improbabile Chiesa spirituale, proprio lui che incarnava nel visibile la storia sacra e gli impulsi intimi. Michelangelo fu quella Chiesa che in quell’immenso e dispendioso sforzo volle parlare di Dio all’uomo del tempo con l’unico linguaggio che credeva congeniale alla nobiltà dell’intenzione. Al tempo stesso era la celebrazione dell’uomo nell’ottica rinascimentale di signore della natura e della storia. Scindere quest’armonia, rinascimentale e cattolica, che non pensava ai rischi di letture postume di parte, vuol dire rimanere lontani da quel mondo e non volerne comprendere lo spirito. Ma anche da lontano la Roma di Michelangelo è un prodigio mai più eguagliato.

Tito definisce “effetto Michelangelo” la forte suggestione che contagiò i suoi ammiratori e ne fece imitare le forme. Fu la schiera dei manieristi, oltretutto geniali, che pure figurarono narrazioni della Passione: Rosso Fiorentino, Fra Bartolomeo, Sebastiano del Piombo, Pontormo, Parmigianino, Bronzino costituendo una corrente intellettualistica. Più che imitare la natura imitarono Michelangelo e Raffaello arrestando la serie creativa dei maestri.

Quando Tito passa ai grandi nomi della scuola veneziana gli torna l’elogio di ammirazione per le superbe opere dedicate alla Passione. E’ Tiziano il nome più grande, quello della Coronazione di spine, della Crocifissione, della Deposizione: qui il maestro figura se stesso, come Michelangelo, in un atto di fede nel dolore salvifico di Cristo. Lorenzo Lotto, Pordenone, Tintoretto, Veronese pure raccontarono il Calvario in affollate composizioni col colorismo tipico dell’ambiente. Non è possibile anche qui dire tutto, dobbiamo soffermarci sulla scuola bolognese che tanto interessa suscita in rapporto alla rinascita religiosa anche nell’arte e in concomitanza della Riforma cattolica.

Gli studi attuali fanno emergere, infatti, analisi insufficienti da parte della critica italiana che ha trascurato finora i sussidi storico-religiosi che occorrono in questo argomento. Uno stato di questione che è ben trattato nello studio di Paolo Prodi: Arte e pietà nella Chiesa tridentina (Il Mulino, Bologna 2014) dove, ovviamente, si focalizza l’interesse particolarmente sull’ambiente culturale e artistico di Bologna di fine Cinquecento e sulle direttive del Card. Gabriele Paleotti.

La scuola bolognese in queste pagine è vista come la comunità di artisti più vicina allo spirito della Riforma cattolica. Autori come i Carracci sono presentati come alternativi al classicismo romano e vicini ai desideri della nuova temperie che rigettava il Manierismo e quel classicismo che trattava il soggetto sacro con il linguaggio caro al Rinascimento, quello che figurava la mitologia e le storie sacre senza mutare accento. Lo spirito tridentino, preceduto da sensibilità interne alla Chiesa su uno stile più vicino alla pietà popolare e ad un naturalismo rispettoso della verità storica trovò nei grandi della scuola bolognese un contesto appropriato e geniale. Anche Tito mostra grande apprezzamento per questi artisti e nomina il Card. Paleotti. La ricerca di Paolo Prodi fa giustizia di luoghi comuni della critica tradizionale movendosi su due fronti: i principi dettati dall’arcivescovo Paleotti e la produzione bolognese di fine Cinquecento, inizi Seicento. Il decreto tridentino del 3 dicembre 1563, De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus, è un punto di arrivo e di partenza per gran parte di questo discorso. Prima della sua formulazione c’era stato un dibattito sulle immagini sacre osteggiate come idolatria romana dai calvinisti. Il dettato conciliare non si cura di argomenti apologetici ma obbedisce alla lunga esperienza didattica dell’arte sacra limitandosi a consigliare il decoro per evitare ciò che può contrastare il fine dell’arte sacra.

I Carracci, ma anche il Reni, il Guercino, il Domenichino, ecc. hanno determinato non solo l’attenzione a quella “pietà” che voleva il nuovo atteggiamento ecclesiale, ma la stessa stagione dell’arte che aveva esaurito le sua offerte. I Carracci e il Caravaggio seppero aprire nuovi spazi, sebbene con estetiche diverse. Studiando il periodo Paolo Prodi si è trovato implicitamente a dover rettificare quel giudizio sommario – e ideologico- che non solo unificava ma declassava tutto il periodo che dal secondo Cinquecento andava al Settecento. Bisognava colmare il divario tra storia dell’are e storia della Chiesa. Prodi è partito dall’autorità dello Jedin e da studi che nel Novecento hanno iniziato a smentire l’omologazione culturale che l’avrebbe generata.  Un più documentato quadro storico, sostenuto poi dalle nuove acquisizioni di Francesco Arcangeli e di Eugenio Battisti hanno meglio messo a fuoco non solo l’originalità della scuola bolognese quanto le proprietà locali dell’arte di quel periodo, in dissenso con autorità come Longhi, Zeri, Briganti ed altri.

Il lettore potrebbe domandarsi perché stiamo indugiando su questo periodo. La ragione è nel fatto che questa è la stagione più lunga e più presente nelle nostre chiese e nei nostri musei e dunque merita di essere ben collocata nello spirito tridentino e nelle personalità degli artisti. Sullo sfondo storico di una Chiesa che lentamente converte categorie umanistiche orientate all’antico per affrontare la modernità con nuovo linguaggio. E’ quanto si proponeva il Card. Paleotti a Bologna col suo Discorso intorno alle immagini sacre et profane (1582), poi ripubblicato in latino a Ingolstadt nel 1594.

Il Paleotti dà l’opportunità a Paolo Prodi di riflettere sul concetto di arte della Controriforma come luogo comune di arte militante e obbediente, se non sottomessa. E’ perentorio nell’affermare la libertà degli artisti del tempo con i principi del Paleotti che non amava fissismo. Qui si correggono le affermazioni di uno studioso, A. Graziani, che attribuiva alla Controriforma e al Paleotti norme restrittive per gli artisti. Nulla di documentato. Gli artisti non sono stati soffocati nella loro ispirazione. Si rigetta il concetto negativo a riguardo, ereditato da Benedetto Croce e mai confrontato col clima artistico del tempo.

A riprova si porta l’esempio della religiosità libera e spontanea di Ludovico Carracci. Ma anche gli altri due Carracci erano graditi e conosciuti dal Paleotti perché corrispondevano alle idee che egli propugnava. Quanto alla loro libertà basta dire che quando andarono a Roma, Annibale e Agostino si convertirono al classicismo e a temi mitologici abbandonando l’indirizzo bolognese.

Tutto ciò comporta l’usura interna del termine “Barocco” se si tiene conto tanto del pluralismo quanto di quel localismo che dava un volto proprio alla produzione di Roma, differente da quella di Bologna, Milano, Firenze ecc.. Il dissenso del Paleotti dalle scelte di Roma in armonia con la sensibilità della Riforma cattolica ha chiare ricadute sulla produzione e documenta, inoltre, concezioni che si misurano sul servizio dell’arte. Se a Roma è trionfale, con quanto andrebbe indicato con questa parola, a Bologna e a Milano è vicina ad una naturalismo più narrativo. A Roma forse l’arte è trionfale perché non è imbavagliata? Altrove è tetra e assoggettata? A queste domande nel testo del Prodi corrispondono studi contrastanti che rendono il discorso ricco di voci. Il Kunstle affermava che l’artista post-tridentino è diretto da un soggettivismo che non ascolta la Chiesa. All’opposto il Male diceva che quel periodo è il trionfo di un’arte religiosa dominata e diretta dalla Chiesa il cui punto culminante è il Seicento romano. A questa tesi attingono in massima parte i divulgatori. Ma negli studi del Male, ad un vasto esame di opere e autori, non corrisponde un adeguato studio sulla storia della Chiesa né delle posizioni teologiche, dando luogo a fraintendimenti e deformazioni. Barocco come arte della Controriforma è anche la convinzione del Weisbach. La Controriforma, avverte Prodi, è così concepita come un “blocco monolitico”. Più crudo e polemico è il Réau per il quale l’arte della Controriforma è militante e antiprotestante. A queste proposizioni acritiche Prodi oppone quella di Cantimori che parla di positiva rinascita religiosa nel clima in cui, tra l’altro, operò Michelangelo. Anche l’Enciclopedia Universale dell’Arte, alla voce Barocco, il Briganti ripete i luoghi comuni sopra citati, ma Raffaello Causa, ivi, in altre colonne dissente. Anche il noto Federico Zeri professa la concezione negativa del Barocco come arte di tempo infelice per la Chiesa. Obietta apertamente E. Battisti contestando la validità del metodo dello Zeri e delle sue conclusioni.

Non proseguiamo su questo argomento che rimane fecondo di suggestioni per comprendere quella stagione dell’arte che ha più trattato il sacro in senso educativo e contemplativo, in sede comunitaria e in funzione privata per la pietà. Aggiungiamo che la militanza attribuita all’arte della Controriforma è difficilmente affermabile nei confronti del protestantesimo, se è stata notata l’assenza di moventi apologetici oppure ostili, contrariamente alle affermazioni di Réau. Vorremmo notare, però, l’opera di distruzione, proprio allora, di immagini sacre in zone calviniste-luterane, oltralpe, e la diffusa arte caricaturale, soprattutto nella xilografia, contro il papato e il cattolicesimo. Anche a Roma le bande di Lanzichenecchi ridussero la città ad uno scenario di devastazione nel 1527 da cui si sprigionò un desiderio di ricostruzione con nuovi edifici. Lutero che visitò Roma e i luterani in genere vedevano nell’orientamento all’antico, proprio del primo Rinascimento, la negazione dello spirito cristiano, in base anche all’assioma che la natura e la ragione non sono in grado di orientare a Dio. Tutt’altra era la concezione mediterranea, come quella del nostro Umanesimo, secondo anche gli studi magistrali di Giuseppe Toffanin.

Una volta fissato nel Rinascimento il picco creativo, il Barocco è stato visto come periodo decadente, invece ne è stato il naturale sviluppo portando la tecnica compositiva ed esecutiva più avanti e dando naturalismo e movimento anche psicologico alla figurazione con l’apporto di nuove acquisizioni prospettiche. L’impegno del papato e delle nuove forze della Chiesa, principalmente gli Ordini religiosi, ha visto nell’arte lo spazio comunicativo della fede per il popolo. Il Barocco continuava nella Chiesa quella promozione totale del sapere con gli strumenti espressivi che maturavano storicamente. Un paragone con le Chiese orientali potrebbe giovare a riguardo. Un qualunque bilancio sulla Chiesa post-tridentina non può prescindere da tutto questo a meno che l’attuale angustia ideologica rinunzi a quella distanza superficiale con cui valuta quel periodo di complesso rapporto tra arte e Chiesa.

Volendo continuare nella rassegna di Tito notiamo l’aderenza delle sue valutazioni rispetto alle premesse ora esposte e, dopo l’elogio ai Carracci in genere, Tito riporta i soggetti legati alla Passione prodotti da Annibale Carracci, la sua Crocifissione solenne e drammatica, due versioni della Pietà con lo svenimento della Madre che ricorda gli autori medievali. Poi passa al bolognese Guido Reni, al suo Crocifisso di S. Lorenzo in Lucina e i volti sofferenti di Cristo, prototipi di un’arte devota, apprezzata e poi riprodotta ovunque. Per Tito G. Reni è l’anticaravaggio, cioè uno stile che cerca di sublimare i soggetti e farli muovere in forme di eccezionale decoro. Tutta a parte è la figura e la produzione di Michelangelo da Caravaggio, anticlassicista, antintellettualista che si ritaglia un posto assolutamente nuovo e personale, calando le storie sacre nelle più quotidiane forme della vita popolare, sottraendo ogni trasfigurazione paludata alle figure della venerazione sacra. Drammatizza i soggetti con i contrasti di luce terrena e radente e di fondi scuri come nella Deposizione del Vaticano e la Flagellazione di Capodimonte a Napoli. Fu proprio a Napoli che Caravaggio lasciò la sua scuola più vivace, quella che figurò la Passione con gli accenti della pietà locale e con grandi produzioni. Ricordando Giuseppe Ribera (Spagnoletto), Bernardo Cavallino, Battistello Caracciolo, Tito riporta esempi di grande risultato. Ma ricorda anche Massimo Stanzione e Andrea Vaccaro con le loro intense Pietà. Qui va notato come la Napoli caravaggesca nei soggetti sacri guardò allo stile del maestro ma non rinunciò a quegli accenti religiosi propri della fede locale che si protrasse per tutto il Settecento, anche con l’apporto di Francesco De Mura. L’ambiente dava risalto ai misteri della Passione con gli Oratori di Alessandro Scarlatti, con lo Stabat Mater di G. Battista Pergolesi, col celebre marmo del Cristo velato di Giuseppe Sammartino. E’ la Napoli di S. Alfonso che dipinse un Crocifisso lacerato di piaghe da cui partono frecce d’amore, tema dei suoi scritti devoti che hanno alimentato la pietà popolare italiana per due secoli.

E’ anche il tempo di S. Paolo della Croce che fece della Passione di Cristo il tema centrale della vita e dell’azione pastorale della sua Congregazione. Portava con sé nelle missioni popolari un crocifisso su cui educava lo sguardo degli ascoltatori. Tito riporta quello che è conservato a Roma insieme ad un Gesù Bambino dormiente sulla Croce, anche questo un tema caro all’iconografia dei mistici. Come S. Alfonso ebbe in Paolo De Maio l’amico e consulente di arte, così S. Paolo della Croce si comportò con Sebastiano Conca, noto pittore barocco, e col nipote Tommaso. Il primo gli dipinse una piccola Addolorata, il secondo eseguì un Crocifisso con la Maddalena e una Addolorata per i passionisti di Paliano, soggetto questo poi replicato per altre committenze passioniste nello stile neoclassico che si impose a fine secolo.

Il Settecento, sempre qualificato come frivolo ha declinato variamente la Passione di Cristo, dalla Via Crucis di S. Leonardo da Porto Maurizio alle Passioni di Bach e di Handel, alle Sette Parole di Haydn. Ma abbiamo in pittura la Via Crucis di Gaspare Traversi e soprattutto quella di Giovanbattista Tiepolo che a Venezia chiude in bellezza questa lunga serie di maestri e di capolavori. La sua Via Crucis e gli altri soggetti connessi alla Passione sono drammatizzati con fantasia, vivacità di colori e con una impostazione scenografica che attira l’attenzione e l’emozione di chi guarda. Tito riscatta il Tiepolo da giudizi inappropriati e lo pone come frutto ultimo della grande arte italiana.  Poi il declino avviò l’arte a ripieghi accademici e neoclassici. L’intero fronte culturale fu scosso da nuove sensibilità oltre che dall’ evento storico sociale, ma anche tragico, della Rivoluzione francese. Le figurazioni religiose adottarono lo stile rigido che guardò nuovamente ai modelli greci e romani. Un esempio, tra gli altri, è la Via Crucis calcografica di Bartolomeo Pinelli, un tipo di scelta con cui si fornirono soggetti devoti a chiese e cappelle private.

Abbiamo tralasciato di soffermarci su temi e autori di minore importanza per il cammino dell’arte che però Tito non trascura, come gruppi statuarii, disegni, illustrazioni di testi liturgici ecc.. Sono comunque campi su cui cadono schemi e stili della grande arte in cui essi respirano.

Poi Tito passa ad esaminare alcuni grandi nomi del neoclassicismo. Il primo è Antonio Canova e la sua Deposizione che ritiene convenzionale nella struttura dell’insieme. Per il resto dell’Ottocento non vede spunti e personalità che facciano onore al passato. Riporta la Pietà di Giovanni Duprè, indugia su Domenico Morelli e su certe suggestioni orientaleggianti proprie del secolo, come nel Compianto sul Cristo morto, il cui scenario è scarno e del tutto nuovo rispetto alla tradizione. Cita la Via Crucis di Gaetano Previati e conclude sulla decadenza della committenza ecclesiastica. Questa preferì rivolgersi alla produzione industriale che cominciò a funzionare con la stampa oleografica, con la litografia ed altre tecniche a prezzo molto basso anche sotto il profilo dell’ispirazione e dell’originalità. Si arrivò al consumismo devoto con la cromolitografia e la siderografia riproducendo capolavori destinati alle pareti delle case come ai libri di pietà e al portafoglio.

A dirla tutta, la ragione di questo mutamento fu anche nelle vicende nazionali, non solo italiane. Il drastico spogliamento dei beni della Chiesa e il loro incameramento annullò la grande committenza che non aiutò nuove esperienze. Non sono mancati nomi che hanno saputo affrontare la Passione come Antonio Ciseri col suo Ecce Homo. Ma il giudizio complessivo sul secolo tiene conto di un succedersi discontinuo, talvolta eclettico, di tendenze quasi in posizione d’attesa di quell’Art Nouveau che sboccò nel Novecento europeo.

Quello che nega all’Ottocento Tito lo attribuisce al Novecento, notando che questo secolo non si appassionò a temi sacri, che inoltre sperimentò varie strade alla ricerca di linguaggi adottati e poi ripudiati, lontano da ogni debito col passato. Avanguardie e sperimentalismi hanno puntato sulla libertà dell’artista e su quella del segno espressivo senza raggiungere, in genere, un’arte che potesse servire per il culto ma hanno talvolta raggiunto il pathos religioso. Tito inizia dando merito ai futuristi di tendere a “svecchiare tutta la cultura” e approva la Crocifissione di Gerardo Dottori, una novità “che più si avvicina alla poetica futurista”. Ma altre sono le correnti che incalzano e non investono nel sacro, sebbene talvolta si vedano attenzioni inaspettate e originali come il Crocifisso dell’ebreo Modigliani, un disegno significativo. Più espliciti sono i lavori di Carlo Carrà e Gino Severini che riuscì con successo a trattare temi della Passione finanche per luoghi di culto, così pure quelli di Arturo Martini. La Crocifissione di Felice Casorati è di intensa serenità costruita con una compostezza quasi liturgica. Eguale consenso riscosse l’Operaio in Croce di Ottone Rosai, oltre la sua Crocifissione, in quell’ ambiente fiorentino in cui operò anche Primo Conti con i suoi gradevoli soggetti sacri, legati alla Passione. Non poteva mancare questo artista che fu la guida del giovane Tito. Più noti sono De Chirico e Guttuso che hanno espresso nella Crocifissione di Cristo uno sguardo personale e sociale. Quella di Guttuso suscitò perplessità perché inserita in un contesto provocante con qualche dettaglio trasgressivo, ma ben inquadrato dall’autore nelle motivazioni connesse ad un condivisibile senso tragico moderno. Tito riporta un Volto di Cristo coronato di spine, dell’artista siciliano, quel Volto che Guttuso, icona del Partito comunista, nell’ultima malattia invocò ripetutamente prima di morire con i sacramenti. Diverso, invece, il Crocifisso di De Chirico eseguito guardando al grande passato che talvolta lo affascinava. Anche Fazzini, Fieschi, Fausto Pirandello, figlio del noto letterato, hanno figurato temi della Passione. Nella scultura registriamo il Crocifisso di Giacomo Manzù che ricorda quelli romanici. Sorprende quello di D. Fontana in ceramica riflessata. Sono vari gli approcci al tema della Passione, dagli artisti che hanno sostato solo sul volto di Cristo come Accatino, Mastroianni. Altri hanno preferito il solo simbolo della Croce quasi ad evitare il figurativo, spesso considerato da certe avanguardie come cancellazione della realtà, quasi ostacolo all’artista che pone l’ispirazione solo in un moto interiore. Ciò non toglie che altri artisti hanno preferito un esplicito figurativo, come Trento Longaretti, Luigi Filocamo, Pietro Annigoni ecc., con i loro soggetti religiosi, anche passiologici. L’arte è visibile affermazione del mistero dell’Incarnazione, analogata nell’immagine, che già per sé è simbolo e non vuole ulteriormente simbolizzarsi in un silenzio apofatico. L’immagine è una consistenza leggibile, dunque è la parola della realtà. Se l’artista sopprime la copula “è”, il suo prodotto non è trasferibile perché l’arte vive di questo rimando semantico tra l’essere e il significato. Il rifugio nell’informale può essere il momento mnesico di un impulso affidato ad uno spazio visivo ma muto e personale se non affidato al bisogno obiettivo della narrazione. Qui l’arte si ritira in solitudine e professa il proprio silenzio di fronte alla realtà, sopprimendo la comunicazione come messaggio di rinuncia che sostituisce il linguaggio dell’arte con un’argomentazione letteraria vera e falsa, ripudio della realtà in quanto stimolo scettico per la coscienza umana. Ovviamente la figurazione religiosa sosta con rispetto davanti a questa scelta non adottabile per il proprio carattere affermativo.

A questo proposito notiamo che l’età contemporanea ha sofferto un distacco tra Chiesa ed artisti, sia per travagliati rapporti tra Chiesa e cultura moderna che hanno distratto l’attenzione a problematiche di mutevole emergenza, sia per la biografia degli stessi artisti, più attenti a scuole e ricerche espressive, di consistenza soggettiva, che ha valori trascendenti. Ma quella distanza non poteva durare, almeno a quel modo, e i reciproci pregiudizi non bastavano a spezzare un connubio che era stato fortissimo per secoli. Già all’epoca del Concilio si ebbero dei risultati con accostamenti e nomi significativi, ma ancora prima c’erano stati artisti di robusta ispirazione che avevano dato attenzione a temi religiosi e alla Crocifissione di Cristo: Gauguin, Rouault, Dalì, Chagall ecc. Fu soprattutto Paolo VI a voler colmare un fossato che, tuttavia, rimaneva e che le nuove disposizioni sulla liturgia e le nuove soluzioni per l’architettura sacra potevano sanare. Il Papa si rivolse agli artisti ricordando loro il forte potere assertorio dell’arte in favore dei contenuti religiosi. Volle il settore d’arte contemporanea nei Musei Vaticani e promosse personalmente opere e autori. Ma altro è essere sollecitati dal Papa e altro è muoversi in un contesto di provincia con il proposito di convocare artisti intorno a temi religiosi.

A questo progetto temerario volle dedicarsi il passionista P. Adriano Di Bonaventura: convincere artisti contemporanei a misurarsi col sacro e poi esporre le opere in una Biennale. Si trattava di superare non solo il distaccato laicismo degli artisti moderni ma anche la diffidenza cronica per la committenza ecclesiastica ritenuta come ancorata a stili e moduli non congeniali alla totale libertà creativa, a parte i contenuti. Ma era anche confidare in quel misterioso e profondo consenso col divino che ogni vero artista percepisce nei processi creativi. Con le esposizioni, e con i loro cataloghi si aprì uno scenario interessante sull’arte contemporanea. Non valeva tanto il punto di partenza, ideologico o biografico, degli artisti, quanto il fatto che il tema sacro, particolarmente quello della Passione, provocasse un’ispirazione in un mondo a tutt’altro attento. P. Adriano non improvvisava, gli serviva un valido conoscitore di autori ed esperienze contemporanee, lo trovò in Tito col sostegno del salesiano Carlo Chenis, poi vescovo e segretario dei Beni Culturali della S. Sede. Tra gli artisti che hanno collaborato a tale progetto ricordiamo Fieschi, Brindisi, Borgonzoni ecc.

Avviandoci a concludere prendiamo atto che questo lavoro di Tito è un buon servizio alla cultura, in modo particolare per quegli operatori della comunicazione che sono chiamati a giustificare o leggere un’opera d’arte che parla della Passione di Cristo. Tito l’ha fatto in modo che anche chi non ha confidenza con il linguaggio atteggiato (spesso gratuito ed evasivo) dei critici possa sentirsi informato. Certamente l’arte è una grazia aristocratica che non conosce i diritti dell’eguaglianza né i doveri dei canoni di confronto, spesso anche a livello di fruizione. Ma è di fondamentale importanza per comprendere l’uomo e la sua storia, la fede religiosa e le sue inculturazioni. Tito si è imposto un limite nella sola arte italiana. Sarebbe stato interessante inseguire in Europa i maestri che hanno appreso e praticato il linguaggio italiano. Tra i tanti citiamo il Velasquez, autore di un bellissimo Crocifisso ortostatico, cui dopo tre secoli si ispirò Salvador Dalì nel suo Crocifisso di S. Giovanni della Croce, oppure Hans Holbein che però accompagnava esperienze italiane con suggestioni del tutto nordiche come nel suo lugubre Cristo morto. Sarebbe stato anche istruttivo notare la distanza dalle forme rinascimentali italiane nel coevo radicalismo di spirito ancora goticheggiante e aspro di M. Grunewald nelle sue Crocifissioni. Ma l’armonia compositiva è segno di uno sguardo pacificato con la natura e con l’umanità, valori auspicabili nell’arte di sempre. E’ quanto ci ha fatto constatare la lunga esposizione di questi due volumi con lo sguardo fisso in quel mistero che è infinitamente figurabile perché indicibile che è la Croce di Cristo.

p. Costantino Comparelli

 


La redazione de
La Sapienza della Croce